Eschilo, Agamennone



L'Agamennone è il capolavoro di Eschilo, la prima opera della trilogia cosiddetta Orestea, insieme alle Coefore e alle Eumenidi. In essa troviamo esplicitati i concetti cardine della visione eschilea della realtà, espressi in immagini robuste e potenti. Innanzitutto la visione di una "necessità" nell'ordine del mondo, che i Greci chiamano anànche e i Romani Fato, a cui tutti, uomini e dèi, devono inevitabilmente cedere: "Immerse il collo nel collare della necessità", scrive il poeta (cito nella classica traduzione di Manara Valgimigli, da ultimo in Tutte le tragedie di Eschilo, Roma, Newton Compton 1994). Sul destino degli uomini dominano comunque gli dèi "che saldamente seggono al sacro timone del mondo": "Ahi ahimè, tutto muove da Zeus, di tutto è artefice Zeus, di tutto è causa; niente si compie fra gli uomini senza il suo volere, niente avviene che non sia da lui stabilito". Nei confronti degli dèi pertanto è saggezza da parte dell'uomo nutrire un venerando rispetto: "chi con cuore devoto canti epinici a Zeus, questo soltanto avrà colto suprema saggezza". Purtuttavia non c'è da farsi illusioni sulla sorte dell'uomo: "Le vie della saggezza Zeus aprì ai mortali, facendo valere la legge che sapere è soffrire". La verità da parte dell'uomo, insomma, è quasi un obbligo morale, un dovere da assolvere inevitabilmente, ma con l'amara consapevolezza che scoprirla significa squarciare il velo su una realtà di dolore: "Buono e vero disgiunti facilmente si scoprono".
La felicità per l'uomo è dunque un miraggio, certamente possibile, ma sommamente raro: "Oh, la sorte degli uomini! E' come il sogno di un'ombra la loro felicità. Se viene sventura, anche quel sogno svanisce come tratto di umida spugna cancella un dipinto"; e soprattutto nessuno si può dire felice se non alla fine del viaggio terreno: "Felice è da reputare solamente colui che felicemente compié la sua vita".
Da un punto di vista squisitamente morale è ben presente nell'Agamennone la visione arcaica (si veda ad esempio il biblico Libro di Giobbe) per cui il dolore dell'uomo si spiega come conseguenza di una qualche colpa da lui commessa ovvero commessa da un suo antenato che però si riversa sull'intera stirpe, e di cui si ergono a vendicatori gli dèi stessi, o altri uomini che però sembrano far la figura di burattini i cui fili sono tirati dagli dèi. Alla colpa così segue la punizione e la vendetta, di generazione in generazione, in un circolo di cui è arduo determinare la fine: "Oltraggio risponde ad oltraggio. Difficile è giudicare. Chi preda è predato, chi uccide è ucciso. Finché rimane saldo Zeus sopra il suo soglio, anche rimane saldo che chi ha fatto patire patisca. Questa è la legge. Chi potrà mai dalle nostre case scacciare il seme della maledizione? Incatenata a sventura è la stirpe degli uomini". Il concetto centrale è proprio quel "finché rimane saldo Zeus", che adombra l'esistenza di una Giustizia superiore agli uomini che in ogni caso trionferà. L'intervento degli dèi nel mondo, la loro non-indifferenza alla sorte degli uomini, è in effetti un dato scontato nella mentalità eschilea: "Ebbero essi la sorte che il dio stabilì. Contro i mortali che calpestano santità di diritti dice taluno che sono inerti gli dèi. Empio è chi dice così. Maledizione è figlia di audacie non lecite, là dove spiri potenza oltre il giusto e là dove opulenza trabocchi dalle case. Bene supremo è misura"; e ancora: "Non resta celata la colpa, che anzi risplende di paurosa luce agli occhi di tutti. E' come moneta falsa il colpevole, che, sfregata per prova e battuta, appare qual'è, un pezzo di nero ferro". La colpa da parte dell'uomo può scaturire facilmente da un atto di ùbris, cioè di superbia, che induce l'uomo, sulla base appunto di "audacie non lecite", a superare limiti naturali non superabili, imposti all'uomo da un superiore piano divino cui l'uomo deve adeguarsi, volente o nolente. "Troppi fra gli uomini preferiscono il parere all'essere e soverchiano la giusta misura", afferma il corifeo nel terzo episodio. In tal senso colui che più rischia la collera divina è colui che si erge a sfidarli, il superbo appunto: "Cade sugli alti vertici il fulmine di Zeus"; laddove l'atteggiamento opposto, quello dell'umile, è il solo improntato a giustizia: "E dico che solo la colpa produce altre colpe a lei simili, e solo nei focolari governati da giustizia bella prole di figli genera sempre il destino... Giustizia risplende nei fumosi tuguri perché il vivere onesto ella onora; dalle regge costellate di oro, dalle mani macchiate di sangue torce gli occhi e fugge; pie dimore cerca".
Al di là del dolore metafisico, nel senso di universale e quindi come tale connaturato ontologicamente all'essere homo, Eschilo però riconosce un dolore provocato dall'uomo contro l'uomo, nella fattispecie con il fenomeno della guerra, nei cui confronti le parole dell'Agamennone sono di inequivocabile condanna: "Ma c'è una mestizia ancora più grande, di tutte le case, per tutti coloro che partirono in guerra dalla terra di Grecia, un dolore di cuori pazienti, che punge e ferisce il cuore di ognuno. Nella partenza li accompagnarono i familiari, ne ricordano il volto, e ora alle case, invece di uomini vivi, ritornano ceneri e urne... E' Ares che i vivi scambia coi morti, che nella battaglia regge la bilancia, che da Ilio rimanda ai familiari, tolta dal rogo, una polvere greve di amari compianti, che di una cenere di uomini riempi i lebèti, peso leggero"; e poco più oltre, richiamando alla memoria la vita sul campo di battaglia: "Solo gli dèi sono in tutto eternamente felici. Che cosa dirò degli stenti, dei bivacchi all'aperto, dei duri giacigli nelle strette corsie delle navi? Imprecazioni e lamenti ogni ora del giorno. E a terra tanto più e peggio. Si doveva dormire sotto le mura del nemico, e dal cielo la pioggia e per terra la guazza dei prati ci inzuppavano continuamente le vesti, e avevamo i capelli irsuti come selvaggi. E poi c'era l'inverno che fa cadere morti gli uccelli, e le nevi dell'Ida lo rendevano anche più intollerabile; e c'era l'estate quando il mare senza onde, senza fiato di venti, si stende assonnato nei suoi giacigli meridiani...". Un quadro insomma decisamente sconsolato.
Nel complesso la visione che traspare nell'Agamennone se non è necessariamente determinismo (l'uomo deve soccombere agli dèi e alla necessità, ma ciò non toglie che egli sia libero di compiere il male), sconfina certamente in un desolato fatalismo: "I giorni dell'uomo sono contati: qualunque cosa egli faccia, non è altro che vento", queste le amare parole dell'Epopea di Gilgamesh, poema sumerico del 2000 a. C., altro grande testo profondamente fatalistico. Nell'Agamennone questo concetto è apertamente dichiarato nel finale dell'opera, quando Clitennestra, dopo aver trucidato il marito nella vasca da bagno e dopo averne ricordato al coro le colpe nei suoi confronti (soprattutto l'uccisione dell'innocente Ifigenia, oltre al barbaro delitto di Atreo nei confronti del fratello Tieste), conclude sbrigativamente con queste parole: "Quello che avvenne, doveva avvenire". Una risposta secca senza possibilità di replica.

Il testo integrale in italiano dell'Agamennone si trova online qui
oppure su Wikipedia nella classica versione di Ettore Romagnoli.

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